“Serve cavallo, fiumi troppo profondi!” dichiarò Mubarak-Ali nel tentativo di concludere affari a lui più favorevoli.
“Un asino è più che sufficiente!” fu la mia replica.
Il giovane Wakhi possedeva entrambi, ma non eravamo disposti a pagare la cifra richiesta per il destriero Afghano; il minuto asino senza coda era l’ideale. I miei compagni d’avventura, tuttavia, iniziavano a preoccuparsi.
“Ci sono grandi fiumi da guadare, lungo il tragitto attraverso le montagne?” domandai già consapevole della risposta.
“…No” ammise infine Mubarak-Ali.
Il nostro piano consisteva nell’acquistare una bestia che, per trenta giorni, avrebbe trasportato i quaranta chili di viveri necessari alla spedizione; quando venne il momento, tuttavia, realizzammo che nessuno dei quattro aveva una minima idea sul come prendersene cura.
Eravamo entrati in Afghanistan quarantott’ore prima presso il villaggio di Ishkashim. Rispetto alla sua controparte Tajika, al di là del fiume, fu subito evidente il salto nel tempo che avevamo compiuto: il ponte sul fiume Panj metteva in comunicazione due realtà che parevano separate da almeno ottant’anni.
“Ieri pericoloso; domani magari pericoloso. Oggi, però, non pericoloso.” fu l’essenziale lezione che avevamo appreso nel movimentato villaggio che da anni riusciva a resistere ai tentativi di invasione dei Talebani, che rimanevano respinti al di là di un colle ben visibile dalla strada principale. Con un po’ di fatica avevamo trovato un veicolo 4x4 che, dopo due giorni di faticosa guida lungo una pista sterrata in cattive condizioni, ci aveva depositato al termine del cosidetto corridoio Wakhan. Questa lunghissima valle, che per duecento chilometri si incunea tra remotissime vette di settemila metri del Pamir e dell’Hindu Kush, è ancora parte dell’Afghanistan sebbene sulla mappa paia una forzatura: il confine politico venne infatti pensato per creare uno stato-cuscinetto che avrebbe diviso l’impero Britannico e Russo. Marco Polo attraversò il Wakhan tra il 1271 e il 1275; già all’epoca era sfruttato da oltre un millennio come via di commercio verso la Cina attraverso le impervie montagne dell’Asia Centrale. Oggi è una splendida ma arida valle di alta montagna abitata da circa diecimila Wakhi, un amichevole popolo di pastori e agricoltori, e da un discreto numero di Leopardi delle nevi e altre creature Himalayane.
Non era il Wakhan, tuttavia, la nostra meta; Talebani e antichi avvenimenti storici non avrebbero più avuto alcun senso una volta lasciatolo alle spalle. Speravamo infatti di raggiungere un luogo leggendario chiamato Piccolo Pamir, che distava qualche giorno di cammino dall’ultimo villaggio Wakhi: laggiù il tempo doveva essersi fermato da parecchi secoli, e i misteriosi abitanti non avrebbero alcuna familiarità con istituzioni, leggi e modernità. I Kyrgyzi d’Afghanistan, infatti, sono una popolazione nomade che non ha mai smesso di vivere allo stesso modo dei proprio antenati: il prezzo da pagare, però, è l’isolamento assoluto dal resto del mondo e le pericolose conseguenze che ne derivano. Nessun luogo abitato del pianeta – ad eccezione forse di alcune tribù delle foreste pluviali – è totalmente intoccato dalla cultura occidentale: che il Piccolo Pamir fosse effettivamente ancora vergine? Presto, forse, lo avremmo scoperto.
Lasciammo Sarhad-e-Broghil, il fiabesco villaggio dove le montagne del Karakorum, Hindu Kush e Pamir si incontrano, l’otto Agosto; con noi vi era Mubarak-Ali e il suo asino senza coda (pare fosse stata mangiata dai lupi). Egli era l'unico abitante della valle a conoscenza di poche e fondamentali parole d'Inglese, tuttavia accettò di accompagnare noi e il suo asino solo fino all'inizio del territorio Kyrgyzo - a cinque giorni di cammino - per poi far ritorno a casa con esso. Il nuovo e indefinito piano prevedeva quindi di rimediare una nuova creatura una volta raggiunto il Piccolo Pamir, se possibile.
Gli Wakhi e i Kyrgyzi d’Afghanistan infatti non si amano particolarmente e il Piccolo Pamir è un luogo misterioso anche per gli stessi abitanti del corridoio Wakhan. Il percorso si rivelò subito più lungo e complesso del previsto; i passi di montagna sfioravano i cinquemila metri, i nostri zaini erano oltremodo pesanti e sovente camminavamo su e giù per oltre venti chilometri al giorno. Disidratazione e cattivo acclimatamento funestarono i nostri primi giorni di marcia, nonostante fossimo tutti piuttosto in forma e abituati alle montagne e alla fatica. Il quinto giorno scavalcammo l’ultimo passo chiamato Akbillis, a quattromilaseicento metri di quota, nei pressi di un incantevole lago. Davanti a noi si apriva uno scenario incredibile: un vasto altopiano racchiuso da montagne, di incredibile bellezza, si estendeva per ottanta chilometri fino alla Cina. Era il luogo leggendario che stavamo cercando, il Piccolo Pamir.
“Quando l’uomo arriva in questo luogo, che si dice essere il più alto del mondo, egli trova una piana tra le montagne, con un lago molto bello e grande; in questo pascolo una bestia magra diventerebbe grassa in dieci giorni. Nessun uccello vola in questo luogo che è alto e freddo, e il fuoco non ha il colore che ha da altre parti, né brucia colui che lo tocca”
(Marco Polo – il Milione)
Giungemmo stanchi al primo villaggio di nomadi Kyrgyzi, che veniva chiamato Karchindy e che fino all’ultimo rimase nascosto in un piccolo avvallamento. Era situato a quattromiladuecento metri di quota, come gran parte degli insediamenti del piccolo Pamir. Poche yurte – le tende circolari tradizionali piuttosto famose in Mongolia e Kirghizistan – erano abitate da uomini sospettosi e donne splendidamente vestite di lunghi abiti rossi, adornate da collane luminose e svariati ornamenti metallici. Al contrario degli Wakhi – d’aspetto tipicamente Mediorientale o Indiano - i Kyrgyzi avevano lineamenti più simili ai Mongoli: essi fuggirono dalle loro terre ad ovest del lago Baikal in epoca medievale proprio a seguito alle crescenti minacce di Mongoli e Uiguri, trovando rifugio permanente a sud-ovest nel Pamir. Le loro espressioni enigmatiche lasciavano trapelare ben poche emozioni che potessero essere interpretate dalla nostra esperienza di Occidentali.
Mubarak-Ali era a disagio, poiché non parlava la loro lingua né amava il loro stile di vita; ripeteva che erano gente ricca ma furba e poco amichevole. I Kyrgyzi d’Afghanistan tuttavia non conoscono il denaro, e le loro ricchezze sono rappresentate dal bestiame, principalmente yak, cammelli e capre; alcuni pastori Wakhi sono soliti lavorare al loro servizio – benchè ne appaiano scontenti – in cambio di una capra ogni mese. I Kyrgyzi sono infatti un popolo di pastori e non hanno alcuna conoscenza di agricoltura, poiché l’altitudine e gli inverni rigidissimi non permettono la sopravvivenza di alcuna pianta utile come alimento. Il riso che consumano quotidianamente (spesso bollito nel latte di Yak) viene acquisito tramite baratto con i vicini del Wakhan; ogni viaggio dura molti giorni ed è lungo e faticoso specialmente d’inverno, quando l’unico accesso al Pamir è la pericolosissima superficie ghiacciata del fiume che scorre sul fondo di un pericoloso canyon.
L’asino senza coda e l’irrequieto padrone accettarono di seguirci per un'altra giornata, salvo poi tentare l’ammutinamento dopo venti chilometri di penosa marcia senza meta attraverso l’arido paesaggio. La valle era infatti larga più di dieci chilometri, pareva interminabile in lunghezza e non vi era alcun punto di riferimento. Le nostre mappe sovietiche risalenti agli anni settanta si rivelarono inutili poiché non vi era traccia degli insediamenti nomadi indicati. Nemmeno i pochi report di esplorazioni precedenti, non più vecchi di quindici anni, avevano alcun senso. In effetti, quando Mubarak-Ali minacciò di fare dietro-front, spaventato dall’arrivo del buio, non vi era alcun villaggio in vista. Riuscimmo comunque a consolarlo e a motivarlo e, dopo qualche ora, individuammo per pura fortuna alcune yurte sul lato opposto della valle, ad un'indecifrabile distanza.
La sera del quattordici Agosto arrivammo quindi ad un villaggio di discrete dimensioni, dove vi erano cinque yurte e un paio di costruzioni permanenti. Era arroccato sulle pendici del Karakorum, prossimo al confine con Pakistan; un enorme lago chiamato Chaqmaqtin si estendeva per molti chilometri al centro della piana, più in basso. Il capo dell’insediamento era un uomo magro e scavato in volto, con un pizzetto molto lungo e gli occhi azzurri e taglienti; si aggirava tra le tende assieme al fratello – quasi identico – parlando di rado, e mai con noi. Per puro caso Mubarak-Ali incontrò un caro amico Wakhi, e il suo pessimismo mutò in genuina felicità; tuttavia non se la sentì di proseguire verso l’ignoto e dichiarò che, l’indomani, sarebbe tornato verso casa. Riuscimmo a cavarcela grazie ad una basilare conoscenza di Persiano, che è simile alla lingua Dari utilizzata da una buona parte di Afghanistan; sebbene i Kyrgyzi avessero la propria lingua essi erano in grado di comprenderne perlomeno le espressioni più importanti.
I fiumi e i laghi minori che adornavano il grande Chaqmaqtin si rivelarono ricchi di pesci, discretamente grandi e piuttosto propensi ad essere catturati da Luca; fu il nostro unico alimento diverso da riso, pane e thè al latte di Yak. Sorprendentemente, però, i Kyrgyzi non li apprezzano; tentammo invano di donarli ai leader dei villaggi che visitavamo, salvo puntualmente vederceli riconsegnati, interamente fritti, poche ore dopo.
Il villaggio successivo distava meno di quindici chilometri ed era già visibile all’orizzonte. Si trovava alla fine del lago, ad un paio di chilometri dalle sue sponde indefinite a circa quattromilacento metri di quota; lì iniziava un territorio chiamato Manara, raramente raggiunto da qualsiasi straniero. Fummo accompagnati da un silenzioso giovane a cavallo, che tornò alla propria casa la sera stessa. Come quasi tutti gli insediamenti, anche Arghail era costituito da tre yurte ed era perlopiù abitato da un'unica grande famiglia. Alle sue spalle si innalzava un’insuperabile barriera di ghiacciai e vette che di rado toccavano i seimila metri; sul lato opposto della valle, verso il Pamir Tajiko, i monti erano arancioni e dalle linee più dolci. Nonostante l’innegabile bellezza del luogo, i Kyrgyzi dovevano pagare un salato prezzo per poter vivere quaggiù: l’isolamento era la causa di un’inevitabile mancanza di educazione, una dieta poverissima, la totale assenza di medicine moderne e uno dei più alti tassi di mortalità infantile e materna del mondo. Si dice che nessun bambino nato in inverno sopravviva, e il cinquanta percento non arrivi ai cinque anni. E questa è solamente una piccola parte dei problemi che questo misterioso popolo di nomadi si trova a fronteggiare, che includono anche una lunga storia di dipendenza dall’oppio, trasportato nel piccolo Pamir da avidi contrabbandieri Afghani in cambio di bestiame.
Nonostante l’iniziale diffidenza, tuttavia, la famiglia del villaggio ci ospitò per tre giorni; la vecchia matrona, senza un’occhio, ci prese in simpatia. Le donne Kyrgyze sono solitamente timide e tendono a nascondersi dagli stranieri; la sinistra anziana, che sfoggiava un copricapo bianco e abbondanti gioielli, tuttavia, era molto sfacciata: ero certo che fosse il vero leader del villaggio e che deridesse apertamente il mio aspetto. Anche i bambini, inizialmente sospettosi, ora mi bombardavano pericolosamente di pietre in testa in segno - forse - d’amicizia.
Un enorme Yak grigio venne legato accanto alla nostra yurta degli ospiti; arrivò il giovane Abdul-Wakhil, che doveva avere sedici anni, e poi suo padre, un uomo basso e pelato dalle sopracciglia appuntite e lo sguardo truce che fumava in continuazione una sorta di sigaro e che avevamo di conseguenza soprannominato Kyrgh Eastwood; infine si materializzò un altro individuo molto serio che a mani nude procedette alla castrazione della sfortunata bestia, lasciandola sfinita in una piccola pozza di sangue tra le risate generali del villaggio e la nostra totale incomprensione dell’evento. Entro la sera seguente, fortunatamente, la povera creatura si reggeva sulle proprie zampe e aveva ricominciato a brucare con rassegnazione le sterpaglie nei dintorni.
La mattina seguente arrivarono a cavallo due insoliti individui, evento che fu preannunciato dall’improvvisa e approfondita pulizia della yurta degli ospiti da parte di Kyrgh Eastwood: pareva che fosse gente importante. I due cavalieri avevano un aspetto solenne e, anziché sfoggiare il classico copricapo cilindrico indossato da tutti gli uomini Kyrgyzi, portavano un colbacco e parevano in viaggio da giorni. In effetti rivelarono – perlopiù a gesti – di essere giunti dal lago di Van, in Turchia, dove vive la più folta comunità di Kyrgyzi d’Afghanistan. Avremmo giurato avessero cavalcato per migliaia di chilometri, ma era un’ipotesi piuttosto improbabile. Essi conoscevano una sola parola in inglese: “millenovecentosettantotto”. Era l’anno in cui erano fuggiti dall’Afghanistan seguendo il loro Khan, Haji Rahman Qul, a seguito della crescente minaccia Sovietica, la cui invasione attraverso il Pamir sembrava imminente e inevitabile. Attraversarono le montagne fino al Pakistan insieme ad altri milletrecento Kyrgyzi, un numero di gran lunga maggiore di quelli che rimasero indietro. Molti degli esuli perirono però di malattia e cinquantaquattro famiglie, scontente del proprio leader e della situazione difficile, fecero ritorno nel Pamir; alle restanti fu concesso di costituire una comunità nella Turchia Orientale, sulle sponde del Lago di Van, dove tutt'ora trascorrono una vita sedentaria in un villaggio chiamato Ulupamir. Lì avevano rinunciato a parte delle loro tradizioni e abbracciato più o meno forzatamente un concetto di società e di leggi a loro sconosciuto. Secondo l’ultimo “Khan” (re) dei Kyrgyzi d’Afghanistan, nel duemila vivevano circa milletrecento individui nel Pamir, una cifra molto esigua (negli stessi anni quelli in Turchia erano circa il doppio); essi erano però gli unici custodi di uno stile di vita medievale rimasto invariato per secoli, lo stesso osservato da Marco Polo ottocento anni prima. Vista l’unicità dell’evento fu cucinata della panna dolce, che i due uomini – in viaggio per ritrovare i propri parenti – condivisero con noi.
Le visite però non erano finite: qualche ora dopo la loro partenza giunsero a cavallo tre militari Afghani. Erano alquanto sorpresi di vederci, e ripetevano in continuazione la stessa domanda: “Targyman?” (dov’è la vostra guida-interprete?) Dopodichè estrassero un vecchissimo telefono cellulare – assolutamente inutile per telefonare in un luogo così remoto – con il quale si fecero orgogliosamente fotografare in nostra presenza prima di scomparire a cavallo in una nuvola di polvere. La stessa sera festeggiammo il compleanno di uno di noi, il francese Arnaud, a cui regalammo una singola albicocca disidratata incappucciata da una noce e una goccia di miele; tutti ne eravamo invidiosi, ma non ci rimaneva che il solito thè salato e riso al latte di Yak, la cui difficoltosa digestione funestava i nostri organismi e ci infliggeva spesso un doloroso malessere intestinale.
L’indomani partimmo accompagnati dal giovane Abdul-Wakhil, che era sempre sorridente e pareva volerci bene e trasportava i nostri viveri su di un cavallo; l’anziana del villaggio gesticolò infatti in maniera fin troppo eloquente: se avessimo preso un asino saremmo morti nel fiume. In realtà il fiume impetuoso fu in ogni caso guadato a piedi; forse l’unico in pericolo di vita sarebbe stato effettivamente l’asino, che da quelle parti esiste solo di taglia molto piccola. Abdul-Wakhil dichiarò che saremmo andati a Suleyman, verso la Cina: il nostro piano dei movimenti, non particolarmente definito, prevedeva ora infatti di raggiungere la fine del piccolo Pamir, all’estrema punta orientale d’Afghanistan. Avrebbe potuto essere davvero il luogo abitato più remoto dell’Asia, il cuore di Tenebra a decine di giorni di cammino dall’ultima strada, protettore di tradizioni millenarie così preziosamente custodite al riparo di una globalizzazione inarrestabile. Non ne conoscevamo però nulla: né il nome di alcun villaggio, né la loro ubicazione; non ci restava altro che indicare la nostra direzione e procedere passo per passo.
Camminavamo per ore in un paesaggio immutabile e ripetitivo; ogni giorno eravamo costretti a guadare fiumi talora innocui, talora profondi e impetuosi, per poi asciugarci e ricominciare la monotona marcia tra praterie, colli e acquitrini, un terreno mai davvero pianeggiante nonostante l’ingannevole definizione di altopiano.Talvolta ci imbattevamo in piccole mandrie di yak; talvolta in ruderi di antichi villaggi di fango; talvolta ancora rinvenivamo enormi teschi cornuti di un raro ovino Himalayano, la pecora di Marco Polo, che doveva essere di dimensioni ciclopiche e le cui corna erano più impressionanti di quelle d’uno stambecco. Ma non incontrammo quasi mai alcun essere umano ad eccezione di qualche pittoresco cavaliere solitario in pellegrinaggio in questi luoghi ai confini del mondo, e la maggior parte del tempo camminavamo in silenzio, ognuno al proprio passo, senza seguire alcun sentiero. Eravamo in marcia da mezza giornata quando il nostro percorso, a ridosso delle montagne verso sud, fu sbarrato da una gola bassa e larga nella quale un fiume glaciale scorreva agitato. Proprio sulle sue sponde, invisibile fino a quel momento, vi era un grazioso villaggio composto da tre yurte bianche e alcuni muri di pietra ricoperti di dischi di escrementi di yak, utilizzati come combustibile. Era il più idilliaco dei luoghi che avevamo visto fin’ora: alle sue spalle si apriva valle secondaria larga e meravigliosa, nel fondo della quale larghe lingue glaciali si fondevano alla base di montagne nevose poco affilate. In lontananza un’enorme mandria di Yak faceva ritorno dai pascoli e si apprestava ad attraversare il fiume sotto la guida attenta di un cavaliere Kyrgyzo.
“Suleyman!” annunciò Abdul-Wakhil indicando le tende sottostanti.
Come ormai da tradizione, fummo accompagnati nella yurta degli ospiti, dove congedammo il giovane amico che riportò il cavallo al proprio villaggio. Una figura curva e bizzarra vestita di una tunica blu, dagli occhi sporgenti e i lineamenti di etnia indefinibile, entrò a servirci thè e pane. Pareva molto indaffarato, sebbene gentile e servile; il suo aspetto ricordava in un certo senso il gobbo di Notre Dame. Fu solo il giorno seguente che scoprimmo che il suo nome era Suleyman, ed egli era il leader del villaggio che, invece, si chiamava Giartruq. Era certamente un personaggio insolito, quasi comico; i leader incontrati fin’ora avevano invece occhi di ghiaccio e sguardi severi, e mai si prendevano cura direttamente degli ospiti, osservandoli sempre piuttosto in disparte. Suleyman e gli abitanti di Giratruq, al contrario, erano molto premurosi e ognuno di loro ispirava ilarità nonostante i visi erosi dalla difficile vita d’alta quota. Essi faticavano a comprendere le nostre mappe, tuttavia parevano indicarci un ultimo remoto insediamento, al termine del Pamir, ripetendo la parola “Sultan”. Questo misterioso villaggio doveva essere a meno di venti chilometri di distanza, e nonostante la stanchezza decidemmo di avviarci l’indomani. Un ultimo sforzo prima del meritato riposo.
Abbandonammo momentaneamente alcune provviste a Giartruq e ci avviamo accompagnati da Suleyman in persona. Guadammo il fiume antestante il villaggio, presso il quale due giovani donne erano intente a lavare alcune pentole. Non vi erano molte donne a Giartruq; e parevano perlopiù o molto giovani o molto anziane; né avevamo alcun indizio sull’esistenza della famiglia dello stesso leader, che procedeva insicuro attraverso l’aspro altopiano. La vita delle donne Kyrgyze, in effetti, è piuttosto delicata. Pare che gli uomini siano soliti avere numerose mogli nel corso della vita, poiché molte periscono dando alla luce figli che, statisticamente, hanno poche possibilità di sopravvivenza; per alcune di loro la perdita di cinque figli è addirittura la norma, come per gli uomini lo è la perdita di almeno una moglie. Forse Giartruq non era che un villaggio di vedovi; o forse semplicemente nessuno poteva permettersi il matrimonio, che prevedeva un dono di cento capre alla famiglia della sposa (oppure, in alternativa, l’offrire la propria sorella in moglie ad un parente della sposa; ma non tutti avevano questa fortuna).
Dopo solo un’ora di cammino intersecammo un nuovo vallone secondario, vasto e luminoso, al centro del quale vi erano molte yurte e piccole costruzioni quadrate. Era il villaggio più grande che avevamo incontrato fin’ora, il suo nome era Qara Gilga. Esso era menzionato nelle nostre mappe ma da tutt’altra parte: appariva ubicato sull’altra sponda del lago, che non era più nemmeno in vista, a parecchie decine di chilometri di distanza. Questa era la dimora di Abdul Rashid Khan, leader del popolo Kyrgyzo del piccolo Pamir fino alla sua morte avvenuta nel 2009. Da allora i Kyrgyzi d’Afghanistan non hanno più avuto un unico re, interrompendo una tradizione secolare, sebbene alcune voci parevano suggerire che, nell’ultimo villaggio del piccolo Pamir, vivesse tutt’ora una misteriosa figura di riferimento potente e rispettata. Per accedere a Qara Gilga vi era un piccolo ponte parzialmente crollato; ma era ugualmente una sorpresa poiché era fatto di legno, un materiale che doveva essere stato trasportato qua sul dorso di uno Yak da molto lontano. Nel piccolo Pamir, infatti, non esistevano alberi di alcun tipo, e gli arbusti più grossi arrivavano a malapena all’altezza delle ginocchia.
Qara Gilga, pittorescamente collocata laddove una volta arrivava una lingua glaciale che ora si teneva a distanza, aveva un atmosfera poco ospitale. Fummo presto circondati da un gruppo di giovani dall’aria scaltra; pareva infatti che tutti fossero coetanei, tra i sedici e i diciotto anni. Le poche donne presenti ci osservarono dall’uscio delle loro dimore finchè due uomini ci condussero in una yurta dove fu servito il solito thè salato. Arnaud, che aveva studiato approfonditamente tutte le foto di precedenti spedizioni, riconobbe il figlio del defunto “Khan” Abdul Rashid, un uomo sulla quarantina che sfoggiava un grigio pizzetto caprino; egli tuttavia non pareva possedeva alcuna autorità, ruolo usurpato da un parente dall’aria losca, la statura molto ridotta e i lineamenti poco eleganti che era chiaramente adulato da tutti i giovani teenager di Qara Gilga. Anche i sorrisi di Suleyman parevano forzati, e avvertii un certo sollievo non appena riprendemmo la marcia.
Dopo qualche ora fu chiaro a tutti che Suleyman non conoscesse esattamente la strada da percorrere; talora ci ritrovavamo bloccati sul bordo di profonde gole che attraversavano perpendicolarmente l’immenso vallone; talora ci condusse dove i fiumi glaciali si rivelavano troppo impetuosi per essere guadati. Presto ci rendemmo conto: Suleyman aveva chiaramente una pessima vista – motivo per il quale osservava qualsiasi oggetto avvicinandolo esageratamente agli sporgenti occhi – e la mancanza di riferimenti nel vacuo altopiano doveva complicargli un poco la vita. Tuttavia eravamo certi che, costeggiando le montagne, ci saremmo imbattuti prima o poi in quel misterioso insediamento chiamato Sultan.
Era ormai tardo pomeriggio del venti Agosto quando, dopo centocinquanta chilometri di cammino totale, apparve l’ultimo villaggio d’Afghanistan oltre un colle erboso. Alla sua destra si apriva un labirinto di ghiacciai e montagne dall’aspetto aggressivo, adornate di seracchi e nevai luccicanti; l’orizzonte era finalmente sbarrato, a qualche decina di chilometri, dalle montagne marroni della Cina. Era una visione celestiale, la quintessenza dell’Asia più remota e irraggiungibile, specialmente ora che le yurte erano accarezzate dalla calda luce della sera e le mandrie di yak e di capre facevano ritorno al villaggio. Non vi era più alcun luogo verso il quale proseguire, ma il viaggio non era che a metà: rimanevano altri centocinquanta chilometri da percorrere per tornare a Sarhad-e-Broghil.
Per tre giorni rimanemmo ospiti in questo piccolo villaggio chiamato Qoqtruq. Il nostro oste non era altri che l’unico vero leader del popolo Kyrgyzo, benchè non si facesse chiamare “Khan”, un uomo enorme dall’aspetto severo che indossava un raffinato mantello nero e che si presentò come “Sultan-Mama”. Ancora una volta quello che credevamo essere il nome dell’insediamento era in realtà il nome del capo-villaggio. Sultan-Mama, che inizialmente ci aveva accolti con indifferenza e sospetto, si rivelò una persona che, sotto la corazza da duro condottiero di un popolo delle montagne, nascondeva una grande generosità e una saggezza che può appartenere solamente ad una persona di grande intelligenza; benché non fossimo in grado di parlare una lingua comune egli fu sempre in grado di comprendere e farsi comprendere.
Nonostante il riposo la nostra debolezza pareva perdurare; e sovente ci svegliavamo con dolori e disagi di vario tipo; riuscimmo comunque ad esplorare i dintorni, amicarci i cammelli e assaporare quella rara pace che caratterizza i luoghi più isolati della terra. Qoqtruq e re Sultan, in effetti, potevano spacciarsi per una realtà medioevale a tutti gli effetti, e il loro isolamento era tanto spaziale quanto temporale.
Ripartimmo verso ovest in una giornata ventosa, dopo l’addio a Sultan-Mama con cui avevamo stretto ormai un’insolita amicizia. Per poche ore pareva quasi che il viaggio fosse giunto al termine, poiché il Cuore di Tenebra era stato raggiunto e il mistero di Sultan-Kurtz svelato; presto ci destammo però da questo torpore e ci rendemmo conto che la nostra avventura sarebbe stata ancora molto lunga e difficile; inoltre avremmo intrapreso l’incognita e pericolosa via del fiume, che prometteva guadi difficili, labirintico terreno esposto e totale assenza di villaggi per diversi giorni. Insomma, c’era da tener duro per molto tempo ancora. Ci fermammo per un’ora presso un insediamento particolarmente piccolo e povero – solo tre yurte e nessun animale in vista – che era chiamato Qara Qorum. Il nome richiamava certo le montagne alle cui pendici esso sorgeva, che erano geologicamente facenti parte del Karakorum (il Pamir vero e proprio costituiva la metà opposta della valle); sorprendentemente però i Kyrgyzi non sembrano conoscere questo secondo nome o il fatto che fosse attribuito al quel territorio. I quattro uomini che ci ospitarono avevano un aspetto inquietante e parevano leggermente trasandati, tuttavia si rivelarono cordiali e ospitali, mostrando grande curiosità. La yurta in cui ci ospitarono era straripante di colori e cianfrusaglie polverose, e quasi come fosse parte degli interni giaceva sul tappeto un uomo di mezza età molto magro che senza sosta inalava fumi di oppio da una lunga pipa e che non badò assolutamente al nostro arrivo.
Qualche ora dopo avevamo fatto ritorno presso il “grande” villaggio di Qara Gilga, dove rinunciammo al nostro piano di tornare da Suleyman e ci rassegnammo a trascorrervi la notte.
“Sultan? Ne!” esclamò il capo del villaggio dell’ultimo Khan con un eloquente espressione di disprezzo quando raccontammo a gesti il nostro viaggio. L’intero clan di giovani coetanei che lo accompagnava – certamente non fratelli dati i lineamenti marcatamente diversi – era ora affetto da una fastidiosa tosse secca.
Dopo un riposo di due giorni nel vicino Giartruq, ospiti del caro Suleyman, ripartimmo verso l’estremità occidentale del piccolo Pamir - che distò due giorni di lento e ipnotico cammino attraverso l’immutabile vastità arancione. Il tempo si dilatava e si contraeva fino a perdere significato, come anche i dolori e le fatiche. Giungemmo sempre più deboli e avvolti dalle nebbie a Bozai Gombaz, che ritenevamo essere il villaggio più grande e importante ma che si rivelò infine quasi disabitato. Qui vi erano solo due giovanissime donne che si prendevano cura di una sorta di scuola – ovvero una yurta che ospitava un piccolo gruppetto di bambini provenienti da chissà quali altri villaggi. Nel 1891 questo insediamento – sporadicamente abitato da queste stesse tribù nomadi – ospitò l’allora Capitano Francis Younghusband, celebre e fondamentale esploratore dell’Asia Centrale al servizio dell’Impero Britannico, che a sorpresa vi incontrò accampati nei paraggi alcuni soldati Russi; nonostante l’iniziale convivialità e l’educata discussione (con grande stupore di Younghusband i Russi sostennero sfacciatamente che il piccolo Pamir fosse parte del loro impero, mostrando discutibili mappe a sostegno di ciò) il Capitano Inglese fu arrestato dal Colonnello Yanov che, seppur scusandosi profondamente, fu costretto ad eseguire ordini arrivati dai suoi superiori. Fu un piccolo ma significativo evento del Grande Gioco, che coinvolgeva ignare tribù la cui società diametralmente opposta non poteva ancora concepirne l’esistenza. Un’ipotetica invasione Russa dell’Afghanistan – e poi oltre – avrebbe potuto essere l’inizio del declino dell’Impero Britannico; esploratori esperti e ambiziosi come il capitano Younghusband svolgevano spesso ruoli diplomatici nei luoghi di confine più remoti. Quasi novant’anni dopo questo fatto, nel 1978, gran parte dei Kyrgyzi del piccolo Pamir fuggì in Pakistan nel timore di un invasione Sovietica, spaventati da una massiccia presenza di soldati lungo i confini. L’Afghanistan fu effettivamente invaso l’anno seguente.
Avendo fallito negli intenti di trovare degli animali da trasporto per i nostri viveri – poiché il giovane marito di una delle giovani donne, materializzatosi dopo qualche ora, era piuttosto scontroso e unicamente interessato all’oppio – ci avviammo l’indomani con oltre venti chili a testa sulle spalle e morale basso; era necessario trovare un ultimo villaggio prima del fiume, o non saremmo mai arrivati in quattro giorni a Sarhad. Aveva nevicato fino al mattino presto, e benché la neve a terra fosse già scomparsa, tutte le montagne erano ora imbiancate e apparivano più pure e remote che mai. Purtroppo dopo qualche ora iniziò a piovere copiosamente; avanzavamo demoralizzati e sempre più incerti. Dopo una dozzina di chilometri individuammo tra le nuvole basse - e per pura fortuna - alcuni cavalli e una yurta sul pendio della montagna parecchio al di sopra le nostre teste: era la nostra ultima opportunità, e arrivammo distrutti al villaggio dopo un’ultima violentissima tempesta di ghiaccio che ci investì in pieno. Avevamo camminato fin’ora per duecentocinquanta chilometri. Ci trovavamo a Kash Goz, il villaggio Kyrgyzo più vicino all’ultima strada d’Afghanistan, che dista solo settanta chilometri e tre giorni di difficile cammino; nevicava ancora e una fitta nebbia si era adagiata sul dolce pendio rossastro. Per tutto il pomeriggio cercammo di trattare con i sospettosi abitanti, che non parevano interessati ad affittarci alcuna bestia. Fummo ospiti nell'edificio dove erano soliti dormire i pastori Wakhi che badavano alle capre e gli Yak, sebbene questi ultimi fossero perlopiù cresciuti e munti da donne Kyrgyze. Il nostro futuro era ancora incerto, tuttavia la tensione si affievolì, poiché il popolo del Wakhan fu come sempre molto premuroso e, soprattutto, condivideva un umorismo a noi comprensibile, perlomeno in parte. Era molto più facile entrare in sintonia con essi rispetto ai Kyrgyzi, che rimanevano criptici e riservati. Forse non avevamo gli strumenti per cogliere le loro emozioni; ma avevamo comunque potuto apprezzare la generosità di questi uomini così indecifrabili, specialmente nei villaggi più remoti.
Riuscimmo a partire solo a mattina inoltrata, dopo ore di trattative; nel frattempo la neve aveva cessato di cadere. Troppo esausti per superare innumerevoli passi e camminare per quasi venticinque chilometri ogni giorno, riuscimmo ad affittare due cavalli, che a turno ci evitavano qualche ora di marcia faticosa. Nessuno aveva alcuna esperienza e l’esile traccia precipitava spaventosamente sul fondo del canyon nel quale scorreva il fiume Wakhan, un tributario dell’Amu Darya (o Oxus); con noi vi era anche un piccolo asino e fummo accompagnati da due Kyrgyzi a cavallo, che però apparivano piuttosto seccati; avevano con essi alcune borse di merci da commerciare a Sarhad. I due mostravano una evidentissima dipendenza dall’oppio, tanto da lasciarci continuamente ad aspettare – talvolta addirittura per tre ore – il termine delle loro insalubri e ricorrenti pratiche che iniziavano già dalla colazione.
Tre giorni dopo, avendo guadato innumerevoli fiumi e superato l’ultimo passo di montagna oltre i quattromila metri, entrammo trionfalmente a Sarhad-e-Broghil, romanticamente baciata dal tramonto di una sera di fine Agosto, rincuorati dalla vista degli alberi che adornavano l’ampio vallone. Avevamo camminato per ventiquattro giorni e percorso 310 chilometri, un impegnativo viaggio andata-ritorno nel cuore del luogo più misterioso dell’Asia centrale.
Solo due giorni dopo ci trovavamo già ad Iskashim, a seguito di un movimentato viaggio di ritorno attraverso il Wakhan su veicoli di fortuna che si rompevano di continuo; il 31 Agosto transitavamo nuovamente sul ponte che segnava il confine e divideva i due mondi separati da decenni di progresso. In uscita ci fu chiesto di compilare un questionario.
Domanda numero tre: “Quale delle seguenti opzioni vi ha attratto maggiormente:
1) Cultura. 2) Natura. 3) Cavalcare una mucca.”
Forse, in fin dei conti, non avevamo svelato proprio tutti i segreti.